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Costo della vita, come lo vivono i cittadini del mondo? 

Inutile negare che, a livello global, gli ultimi mesi siano stati segnati da un deciso incremento del costo della vita. Un aumento legato alla crisi energetica, al conflitto in Ucraina e ad altre variabili che comunque pesano sulle tasche dei cittadini. E, a proposito d cittadini, come vivono questa situazione? Come la frontino? Per esplorare il sentiment a livello globale è stato realizzato l’Annual WIN World Survey 2022, report che fotografa la situazione finanziaria e l’impatto di inflazione e crescita dei costi nella vita dei cittadini di 39 Paesi, sulla base di quasi 30.000 interviste. I dati sull’Italia sono stati raccolti ed elaborati da BVA Doxa, parte dell’Associazione promotrice WIN International.

Le ragioni dietro gli aumenti generalizzati 

Il costo della vita è aumentato a causa di diversi fattori, tra i quali la pandemia e crisi politiche ed economiche che hanno colpito diversi paesi del mondo. Su questo scenario, in Italia più che in altri Paesi la maggioranza mantiene uno stile di vita equilibrato, senza né eccessi né difficoltà (48% degli intervistati, dato che supera la media europea del 41% e quella globale del 36%).

Diminuisce la quota di chi è senza preoccupazioni

Si riduce la quota di chi vive senza preoccupazioni (21% in Italia vs 26% di media europea e 25% quella globale), mentre chi è in difficoltà ad arrivare a fine mese è il 28% (in linea con il 29% dell’Europa e meglio del 36% a livello mondiale). Paesi come la Germania mostrano una spaccatura più netta tra chi vive con agio (38%) e chi invece è in sofferenza (34)%. Rispetto all’Italia la situazione è leggermente migliore in UK e Francia, rispettivamente con il 27% e il 26% che dichiara di vivere serenamente, mentre il 29% e il 28% sono coloro che non riescono ad affrontare gli aumenti del carovita.

Strategie per ridurre le spese

A causa dell’aumento dei prezzi, per molti è necessario ridurre e spese. Una necessità affrontata da quasi la metà (48%) degli intervistati in tutto il modo, con un 29% che prevede di farlo nei prossimi mesi, mentre il 19% non prevede cambiamenti nel proprio stile di vita e consumo. Tra questi ci sono i più senior, che possono probabilmente contare sui risparmi: infatti il dato di coloro che non prevedono modifiche al budget delle spese sale al 21% per la fascia 55-64 anni e al 24% fra gli over 65.
In generale i cittadini e consumatori Europei sono sensibili al tema del contenimento delle spese: il 54% degli intervistati dichiara tagli negli ultimi mesi, mentre chi li prevede nei prossimi è il 24%. In linea anche l’Italia: a ridurre le spese sono stati il 49% degli italiani, mentre il 30% prevede di farlo.

I lavoratori italiani hanno difficoltà con l’inglese: eppure sarà la lingua delle imprese

Oltre la metà dei lavoratori italiani ha difficoltà con l’inglese. Eppure questa lingua sta sempre più diventando quella ufficiale all’interno di un numero crescente di aziende. Specie se si tratta di start up e di imprese digital. Lo rivela Twenix, società impegnata nel settore EdTech che offre percorsi formativi linguistici a imprese e professionisti e che ha stilato uno studio sul crescente fenomeno dell’ anglofonia aziendale. “La comunicazione corporate, in realtà come la nostra, che hanno la fortuna di possedere talenti internazionali e che godono di una diversità culturale, utilizza l’inglese come lingua universale nella maggior parte dei processi, affinché tutti i dipendenti che non parlano la lingua madre aziendale (nel nostro caso, lo spagnolo) possano condividere informazioni e sentirsi parte della comunità” ha detto Beatriz López Arredondo, head of people di Twenix. “Abbiamo identificato questa necessità a partire dagli inizi del 2022 e nel 2023 continueremo a evolvere in questo senso e tutto ciò che avrà a che vedere con le comunicazioni di interesse globale sarà in inglese”.

L’anglofonia aziendale

È il caso di Twenix, società impegnata nel settore EdTech che offre percorsi formativi linguistici a imprese e professionisti e che ha stilato uno studio sul crescente fenomeno dell’ anglofonia aziendale. «La comunicazione corporate, in realtà come la nostra, che hanno la fortuna di possedere talenti internazionali e che godono di una diversità culturale, utilizza l’inglese come lingua universale nella maggior parte dei processi, affinché tutti i dipendenti che non parlano la lingua madre aziendale (nel nostro caso, lo spagnolo) possano condividere informazioni e sentirsi parte della comunità» afferma Beatriz López Arredondo, Head of People di Twenix. «Abbiamo identificato questa necessità a partire dagli inizi del 2022 e nel 2023 continueremo a evolvere in questo senso e tutto ciò che avrà a che vedere con le comunicazioni di interesse globale sarà in inglese, con una peculiarità: preferiamo che alcuni documenti rimangano nella lingua madre di determinati team per generare un ambiente amichevole per tutti i nostri collaboratori».

Un fenomeno globale

Si tratta di un fenomeno di portata globale, che non si limita al territorio occidentale, ma che si estende anche all’Oriente, come nel caso di grandi compagnie come Samsung, Honda e Lenovo. Multinazionali cui si aggiungono sempre più spesso piccole e medie imprese e startup, che, al pari delle grandi, si aprono ai mercati esteri o accolgono team internazionali.

L’importanza di adottare un linguaggio comune 

Adottare un linguaggio comune in ambito professionale ha una valenza assodata. Lo conferma uno studio dell’Intelligence Unit di The Economist, che ha analizzato gli effetti di una comunicazione che non “funziona”. La mancanza di un linguaggio comune, così come una comunicazione non efficace, può compromettere le performance di un’impresa. I risultati di un simile fenomeno sono: ritardi o fallimenti nel portare a termine progetti (44% dei casi); morale più basso dei team (31% dei casi); mancato raggiungimento di obiettivi di performance (25% dei casi); perdite economiche (18% dei casi).

Nel 2023 l’Italia crescerà dello 0,6%

Incertezza economica e aumento dei prezzi hanno causato un cambio di rotta nella politica monetaria, che ha portato un aumento del tasso di interesse di riferimento tale da rendere più onerosi gli investimenti per le imprese e influenzare negativamente la domanda di beni e servizi. Ciò in futuro avrà un impatto sulle emissioni di debito pubblico, con una maggiore pressione sulle finanze dello stato e sulla sostenibilità del debito stesso, che in Italia si attesta intorno al 150% del Pil.

Il report di EY Italian Macroeconomic Bulletin indica per l’Italia una crescita del Pil reale del 3,8% nel 2022 e dello 0,6% nel 2023, mentre il tasso di inflazione dovrebbe passare dall’8,2% del 2022 al 7,1% nel 2023. Il deficit pubblico dovrebbe attestarsi al 4,1% nel 2023 contro il 5% nel 2022, mentre il debito pubblico dovrebbe scendere al 145% del Pil. Per il mercato del lavoro si prevede una leggera espansione, con il tasso di disoccupazione che dovrebbe scendere poco sotto l’8%.

Inflazione: 11,8% a novembre 2022 

A novembre 2022 l’inflazione complessiva in Italia era l’11,8% rispetto allo stesso mese del 2021. Nonostante la componente energetica sia quella che ha registrato l’aumento maggiore, il suo peso è pari a circa il 10% del totale, motivo per il quale tali dinamiche si riflettano solo in parte sull’Ipc.

Nella definizione del tasso di inflazione, infatti, influisce molto più il settore servizi (38,7% al 2022) rispetto a quello dell’energia. Un altro indicatore influenzato da un’elevata inflazione è la crescita del valore nominale dei salari, che dovrebbero aumentare per contrastare la riduzione del potere d’acquisto dei consumatori.

Una crescita interrotta nel terzo trimestre 2022

In Italia i dati indicano una costante crescita economica, che prosegue consecutivamente da sette trimestri, seppur con un rallentamento registrato nel terzo trimestre del 2022. In questo periodo, infatti, il Pil è cresciuto dello 0,5% rispetto al trimestre precedente, e del 2,6% rispetto allo stesso trimestre del 2021. Il principale contributo alla crescita registrata già l’anno scorso, e proseguita nei primi 9 mesi del 2022, è dovuto ai consumi delle famiglie e agli investimenti. 

Quarto trimestre 2023: rallentano esportazioni e investimenti

Nello specifico, gli investimenti rappresentano la componente più dinamica del Pil, con un aumento di circa il 20% rispetto al terzo trimestre 2019. Anche i consumi hanno avuto una crescita considerevole, tornando ad allinearsi con la fase pre-pandemia. Il modello econometrico di EY stima per il quarto trimestre 2023 una lieve contrazione del Pil rispetto al trimestre precedente, dovuta in particolare alla riduzione dei consumi delle famiglie, che dovrebbe protrarsi anche nei primi mesi 2023 per stabilizzarsi nel corso dell’anno. Le previsioni indicano un rallentamento anche delle esportazioni e degli investimenti, dovuto allo scenario economico incerto e ai tassi di interesse elevati.

Previsioni mercato globale del lusso: +21% nel 2022

È quanto emerge dall’Altagamma Consensus 2023 e dall’Altagamma-Bain Worldwide Luxury Market Monitor: nonostante le turbolenze economiche, nel 2022 il mercato luxury globale supera con decisione i livelli pre-Covid crescendo del 21% e sfiorando quota 1.400 miliardi di euro. Ma lo scenario si prospetta positivo anche nel 2023, con la marginalità delle imprese del settore prevista a +6%. Si tratta di risultati che si inquadrano all’interno di un percorso positivo anche nel lungo termine. Se per i personal luxury goods nel 2022 la crescita è stimata del +22% (353 miliardi), nel 2030 il loro valore di mercato dovrebbe salire a circa 540-580 miliardi, con un aumento del 60% o più rispetto all’anno ancora in corso.

Europa e Stati Uniti +5%, America Latina e Giappone +6%

Per l’Europa si prevede una crescita del 5%, grazie all’aumento dei viaggi internazionali che compenseranno la più debole domanda interna. Anche per gli Stati Uniti si prevede una crescita del 5%, mentre per America Latina e Giappone del +6%. In Cina, grazie all’effetto rebound, i consumi potrebbero crescere del 9%. La Cina sul lungo periodo resta il più grande mercato del lusso, trainato dalla classe media, dalle nuove generazioni e dallo sviluppo di nuovi poli. Per il Middle East si prevede invece un +7%, con aree come Emirati Arabi e Turchia che non avendo imposto sanzioni si stanno avvantaggiando dei consumi dei russi.

Consumi: Cina +10% nel 2023

I consumatori cinesi saranno i best performer nel 2023 (+10%), ma l’effetto rebound dei consumi beneficerà in generale i mercati asiatici (+8%). Meno brillanti i consumi di giapponesi (+5%), e americani (+5%), ed è più cauto lo spending europeo (+4%). Tutte le categorie merceologiche vedranno un aumento delle vendite. Si riconferma la leadership degli accessori, che continuano nel loro trend positivo: +8,5% pelletteria e +7% calzature, mentre abbigliamento (+6%) e cosmesi (+5,5%) confermano il tasso di crescita del 2022. L’hard luxury prosegue il suo trend positivo, in particolare nella gioielleria (+8%), mentre più bassa la crescita degli orologi (+5%). Se per il retail digitale si prevede una crescita del 8% e per i negozi fisici del +7%, il wholesale fisico resta fragile (+3,5%), mentre il wholesale digitale si normalizzerà al +5,5%.

Crescita positiva per il 95% dei marchi grazie a GenY e GenZ

L’esito finale di quest’anno dipenderà in gran parte dalla revoca delle restrizioni in Cina legate alla pandemia, dall’evoluzione della fiducia dei consumatori di lusso europei e americani e dalla potenziale recessione nelle economie di Stati Uniti ed Europa. Nonostante le sfide economiche, nel 2022, riporta Askanews, il mercato luxury ha comunque generato una crescita positiva per il 95% dei marchi, con Usa, Europa e Asia (esclusa la Cina) in testa alla crescita.
La GenY e la GenZ hanno rappresentato l’intera crescita del mercato nel 2022. Al 2030, la spesa della Gen Z e della Gen Alpha è destinata a crescere circa tre volte più velocemente rispetto alle altre generazioni, fino a costituire un terzo del mercato e in virtù di un’attitudine più precoce di questi consumatori verso il lusso.

Auto elettriche: una ricarica costa il 161% in più

Oggi caricare l’auto elettrica è molto più caro. Per colpa dei rincari energetici si spende il 161% in più rispetto a un anno fa. Il dato emerge da un’analisi realizzata da Facile.it, che esamina i consumi di alcuni modelli elettrici e li mette a confronto con veicoli simili alimentati a benzina o diesel.
“Il rincaro dei costi energetici rischia di danneggiare anche la mobilità elettrica – spiegano gli esperti di Facile.it -. Dodici mesi fa, per tutte le simulazioni realizzate, l’auto elettrica era nettamente la più economica dal punto di vista dei costi di carburante, con una spesa che a seconda del modello era inferiore tra il 50% e il 70% rispetto alle versioni a benzina e diesel”.

L’utilitaria segmento B

Il comparatore prende in esame 3 modelli di auto nelle versioni full electric, diesel e benzina, considerando i consumi dichiarati dalle case automobilistiche (sulla base del ciclo misto WLTP) e i prezzi di energia e carburante. La prima analisi riguarda un’auto utilitaria, segmento B, con cilindrata 100-136 CV. Nella versione diesel l’auto ha un’autonomia di 24,4 Km/l, a benzina di 19,6 Km/l, mentre l’elettrica percorre 6,3 Km/kWh. Considerando un tragitto di 1.000 km il motore diesel dal punto di vista del pieno è quello più economico: sono sufficienti 71 euro, mentre per la benzina occorrono 83 euro. All’ultimo posto si posiziona la versione elettrica, che per percorrere i chilometri indicati necessita di 85 euro di elettricità.


La berlina segmento C

La seconda simulazione prende in esame un’auto berlina, segmento C, cilindrata 130-150 CV, nelle versioni diesel (22,5 Km/l), benzina (18,7 Km/l) ed elettrica (6,6 Km/kWh).
Anche in questo caso il veicolo che costa di meno in carburante è quello diesel; per fare 1.000 km l’automobilista spende 77 euro, mentre con l’auto elettrica 80 euro. Il meno efficiente in questo caso è il modello a benzina che richiede 88 euro.

La berlina segmento D

La terza simulazione è l’unica dove il modello elettrico è ancora oggi il più conveniente in termini di rifornimento. Per la simulazione si è presa in considerazione un’auto berlina, segmento D, cilindrata 249-286 CV, nelle versioni benzina Mild-Hybrid (13,2 Km/l), diesel Mild-Hybrid (16,1 Km/l) ed elettrica (5,4 Km/kWh). Considerando una percorrenza di 1.000 km in questo caso l’auto elettrica risulta essere la più economica: occorrono solo 99 euro di energia, mentre per quella diesel servono 108 euro di carburante e per quella a benzina addirittura 124 euro. Per l’energia elettrica si considerata il costo di una ricarica casalinga, usando come valore di riferimento i prezzi in vigore nel mercato tutelato a ottobre 2021 e ottobre 2022, mentre per benzina e diesel si utilizzano i valori medi del prezzo alla colonnina rilevati a settembre 2021 e nell’ultima settimana del mese.

Il pokè raddoppia: in Italia fatturato 2022 a 328 milioni di euro

Il piatto tipico della cucina hawaiana, importato dallo chef Sam Choy negli Stati Uniti, è diventato in poco tempo un food trend mondiale, e nel quadriennio 2022-2026 si prevede un CAGR del 8,4%. In Italia registra addirittura tassi di crescita superiori alla tripla cifra, che indicano notevoli opportunità di crescita nel settore. Nel 2021 è stato registrato un giro d’affari di 151 milioni di euro, cresciuto fino a raggiungere 328 milioni a giugno 2022 (+117%), e per il 2026 si attende un CAGR del 20%, che potrebbe far volare il mercato a quota 689 milioni. A fare il punto della situazione è Growth Capital, che in occasione della Giornata Mondiale del Pokè (28 settembre) presenta la seconda edizione del report Il mercato del Pokè in Italia.

Le pokerie italiane: grandi catene e store indipendenti

In Italia anche gli store hanno registrato una crescita vertiginosa, raggiungendo nel 2022 quota 820. Il 43% del mercato, calcolato in base al numero di store, è appannaggio di catene come I Love Poke (15% di market share e 120 store) e Poke House (7% di market share e 56 store). Growth Capital ha poi individuato altre cinque catene con un numero di store compreso tra le 15 e le 35 unità e un market share compreso tra il 2,2% e il 4,2%, Pokescuse, Macha Poke, Pokeria by Nima, Waikiki Poke e Poke Sun-Rice. In termini di fatturato, la classifica vede al primo posto Poke House, con ricavi per oltre 40 milioni di euro. Il restante 57% del mercato appartiene invece a store singoli e indipendenti.

Milano, Roma e Torino le città più poké-addicted

A livello geografico, Milano, Roma e Torino si confermano come le città italiane in cui il mercato del pokè è più sviluppato. A Milano la prima catena è Poke House, con 21 store e il 16% di market share. Poke House è anche l’unica catena italiana con una strategia internazionale, che a giugno 2022 contava 57 store fuori dall’Italia, in Europa e Stati Uniti, per un totale di 113. Nella capitale, la leadership è detenuta da Ami Pokè, con il 10% di market share, mentre a Torino al primo posto spicca Pacifik Poke (16% di market share). Nel Nord-Est italiano, la catena leader è invece Poke Sun-Rice, con 10 store e il 19% di market share.

Alla conquista del settore fast casual

 “Il mercato del pokè in Italia ha registrato tassi di crescita sorprendenti, conquistando sempre più spazio nel settore del fast casual – sottolinea Andrea Casati, vice President Growth Capital -. Sarà interessante osservare quali strategie metteranno in atto le grandi catene per vincere la preferenza dei consumatori e assicurarsi la massima retention. Ci aspettiamo un futuro consolidamento anche attraverso l’aumento di operazioni di M&A sulla scia delle recenti acquisizioni internazionali”.

Bere acqua, l’idratazione “lava via” lo stress

Il ritorno dalle vacanze e la ripresa della normale vita quotidiana sono momenti impegnativi per il fisico e soprattutto per la mente.  In questi giorni è facile sentirsi stanchi, spossati e addirittura un po’ tristi. Che fare dunque per iniziare settembre nel miglior modo possibile? Oltre a imparare ad avere una visione positiva sulle cose e a lasciarsi del tempo per le attività preferite, una della “cure” più efficaci è l’acqua.

Correlazione tra disidratazione e stress  

Assumere la giusta quantità di liquidi può contribuire al nostro benessere psicologico, aiutando il nostro organismo a superare i momenti di tensione e spossatezza. Tutti gli organi del nostro corpo, compreso il cervello, per funzionare correttamente hanno bisogno di acqua. Quando siamo disidratati il nostro corpo produce eccessivi livelli di cortisolo, notoriamente conosciuto come l’ormone dello stress. Assumere la giusta quantità di liquidi, durante tutto l’arco della giornata, aiuterà a mantenere l’organismo correttamente idratato, a tenere sotto controllo i livelli di produzione di questo ormone e ad essere, di conseguenza, meno stressati e affrontare al meglio i problemi di tutti i giorni. La corretta idratazione è una preziosa alleata nel mantenimento del nostro equilibrio psico-fisico. I differenti minerali presenti nell’acqua aiutano a conciliare il sonno e a combattere la fatica e lo stress accumulato nell’arco della giornata. Numerosi studi dimostrano che il giusto apporto di sodio e magnesio contribuisce a rispondere in maniera efficace alla pressione giornaliera a cui siamo soggetti.

Più energie e più efficienza

Come spiega ad Adnkronos il Professor Alessandro Zanasi, esperto dell’Osservatorio Sanpellegrino e membro della International Stockholm Water Foundation, “Un’adeguata idratazione, con l’assunzione di acque a base di minerali quali magnesio e sodio, può aiutarci ad affrontare al meglio lo stress e i suoi effetti sul sistema emotivo e sul nostro corpo, come il calo di energia e di efficienza. Questi minerali sono, infatti, micronutrienti con un ruolo chiave per la regolazione dell’umore e agiscono in maniera significativa nel ridurre i livelli stress. Bere acqua nelle giuste quantità contribuisce a migliorare il nostro umore. Condurre uno stile di vita sano, proprio a partire da una corretta idratazione e da una buona alimentazione, è fondamentale per star bene e aiutarci a gestire la nostra emotività e la pressione quotidiana”.

Rincari degli alimentari, quanto costano agli italiani?

All’incirca 9 miliardi. A tanto ammonta la stangata che le famiglie italiane dovranno sostenere per le spesa alimentare a seguito dell’aumento dei prezzi. Prezzi cresciuti, e di molto, a causa della guerra in Ucraina e dell’effetto dell’inflazione che colpisce soprattutto le categorie più deboli. E’ quanto emerge dall’analisi della Coldiretti, sulla base dei dati Istat sui consumi degli italiani e dell’andamento dell’inflazione nei primi sei mesi dell’anno.

I maggiori aumenti riguardano la verdura 

In cima alla classifica dei rincari c’è la verdura che quest’anno costerà complessivamente alle famiglie dello Stivale 1,97 miliardi in più – sottolinea Coldiretti -, e precede sul podio pane, pasta e riso, con un aggravio di 1,65 miliardi, e carne e salumi, per i quali si stima una spesa superiore di 1,54 miliardi rispetto al 2021. Al quarto posto la frutta – continua Coldiretti -, con 0,92 miliardi, precede latte, formaggi e uova (0,78 miliardi), pesce (0,77 miliardi) e olio, burro e grassi (0,59 miliardi) che è però la categoria che nei primi sei mesi del 2022 ha visto correre maggiormente i prezzi. Seguono con esborsi aggiuntivi più ridotti le categorie “acque minerali, bevande analcoliche e succhi”, “zucchero, confetture, miele, cioccolato e dolci”, “caffè, tè e cacao” e “sale, condimenti e alimenti per bambini”. 
Una situazione che aumento l’inflazione e con essa l’area dell’indigenza alimentare la cui punta dell’iceberg in Italia sono 2,6 milioni di persone costrette addirittura a chiedere aiuto per mangiare, che sono peraltro in aumento nel 2022 a causa della crisi scatenata dalla guerra in Ucraina con l’aumento dell’inflazione, dei prezzi alimentari e i rincari delle bollette energetiche.

Cosa spinge i prezzi verso l’alto

A spingere i rincari e l’aumento della dipendenza alimentare dall’estero è il fatto che nel 2022 le importazioni di prodotti agroalimentari dell’estero, dal grano per il pane al mais per l’alimentazione degli animali, sono cresciute in valore di quasi un terzo (+29%), aprendo la strada al rischio di un pericoloso abbassamento degli standard di qualità e di sicurezza alimentare, secondo l’analisi della Coldiretti sulla base dei dati Istat relativi ai primi cinque mesi dell’anno.
La situazione è pesante soprattutto sul fronte dei cereali a causa – spiega Coldiretti – dei contraccolpi della crisi globale scatenate dal conflitto in Ucraina con le importazioni di mais che sono aumentate in valore addirittura del 66%, spinte dai rincari e dalle speculazioni, e quelle di grano tenero per il pane sono cresciute della stessa percentuale – sottolinea Coldiretti -, mentre per l’olio di girasole si arriva al +83%. Ma crescono anche le importazioni di olio di palma (+35%), favorite dal fatto che in Italia viene ora consentito di non indicare nelle etichette degli alimenti la provenienza degli olii di semi indicati, mettendo a rischio la trasparenza dell’informazione ai consumatori.

Investimenti esteri in Italia: aumentati dell’83% nel 2021

Il 2021 è stato un anno d’oro per gli investimenti esteri in Italia, che hanno registrato una sensibile crescita: addirittura dell’83%, con 207 progetti di investimenti diretti esteri (Ide) . A dirlo è l’EY Europe Attractiveness Survey 2022, ricerca annuale che analizza l’andamento degli investimenti diretti esteri in Europa e le percezioni dei player internazionali con l’obiettivo di indagare il livello di attrattività di ciascun Paese e individuare i principali driver d’investimento futuri. Tuttavia, nonostante queste ottime performance, con una quota di mercato del 3,5% – in aumento rispetto al 2% del 2020 –  il nostro paese si posiziona ancora a distanza dai principali attrattori di Ide in Europa, ovvero Francia (21%), Regno Unito (17%) e Germania (14%). 

I comparti che “attirano” di più

Ad attrarre la maggior parte degli investimenti esteri in Italia nel 2021 sono stati il settore software e servizi IT (con il 15% degli Ide totali dell’anno), i trasporti e la logistica (14%) e i servizi B2B (12%). In crescita rispetto al 2020 soprattutto gli investimenti nel comparto agroalimentare e beni di consumo (+214% di numero di Ide) e macchinari e attrezzature (+233%). In calo l’attrattività del settore elettronica (-25% del numero di Ide rispetto al 2020) e telecomunicazioni (-57% del numero di Ide rispetto al 2020). Si conferma anche nel 2021 il trend dell’anno precedente che vede gli investimenti in Italia arrivare principalmente dagli Stati Uniti (28% del totale annuo), seguiti dalla Germania (17%), la cui relazione con il nostro Paese si rafforza superando la Francia (12%) e il Regno Unito (7%), anch’essi storici partner commerciali dell’Italia. Si registra invece una flessione del 50% rispetto al 2020 degli investimenti provenienti dalla Cina. Per quanto riguarda la distribuzione delle risorse sul territorio nazionale, si conferma una sostanziale disomogeneità, con una quota prevalente nel Nord-Ovest del Paese (54%) e nel Nord-Est (21%), che nel 2021 supera il Centro Italia, passato dal 24% dei progetti nel 2020 al 15% nell’ultimo anno. Positiva la crescita degli investimenti destinati al Meridione (dal 4% al 10%), nonostante rimanga ancora un consistente divario rispetto al resto del Paese.

Le criticità italiane

Seppur registrando una crescita significativa degli investimenti internazionali, l’Italia continua a presentare criticità rilevanti che ne limitano l’attrattività. Il principale ostacolo, rilevato dal 69% degli intervistati, è l’incertezza regolatoria (+11% rispetto al 2020), seguita per il 65% del campione da un eccessivo rischio di contenzioso per le imprese (+23% rispetto al 2020) e da un eccessivo carico burocratico per il business, avvertito dal 56% degli stessi (in linea con quanto registrato nel 2020). Tra i desiderata segnalati dai manager che investono in Italia emerge la priorità del taglio del cuneo fiscale (70%); a seguire la riduzione del costo del lavoro (32%), incentivi all’innovazione (22%), aiuti ai settori in difficoltà (21%) e sostegno alle PMI (20%).

Estate 2022: più del 75% degli italiani sceglie il Bel Paese

Tra mare, montagna, città d’arte, borghi storici, park per appassionati di sport e ottimo cibo, il nostro Paese è in grado di rispondere alle esigenze di ogni tipo di turista. Lo confermano le preferenze degli italiani per l’estate 2022. Quest’anno infatti il 75,7% di chi ha già prenotato le vacanze non si allontanerà dall’Italia, così come il 66,8% di chi non ha ancora prenotato, che sembra avere intenzione di rimanere all’interno dei confini nazionali. Cresce però la percentuale di italiani che chiederà un prestito per le vacanze: dal 5,5% che lo ha fatto negli ultimi 3 anni al 16% che lo farà quest’anno.
È quanto emerge dall’ultima survey svolta da Younited, fintech del credito istantaneo in Europa, su un campione di oltre 4.300 partecipanti.

Più vacanze italiane, molto meno all’estero

Dopo l’Italia le più sognate sono le mete europee, scelte dal 17,3% di chi ha già prenotato e dal 20,9% di chi non l’ha ancora fatto, mentre le nazioni extra-europee sono state scelte dal 7% di chi ha già prenotato e dal 12,3% di chi non ha ancora effettuato una prenotazione. La vacanza tanto sognata per un anno rappresenta però una spesa importante per il bilancio di molti italiani, e per questo richiede un’attenta pianificazione del budget. Più di un quarto degli intervistati (34,3%) prevede una spesa di oltre 1.000 euro, in crescita rispetto al 27,2% dell’anno scorso, e un ulteriore 23,7% fra i 750 e i 1.000, in leggero calo rispetto al 25,8% del 2021.

Il 16,4% afferma di prevedere una spesa inferiore

Sono solo il 10% coloro che affermano che spenderanno meno di 250 euro e 15,3% quelli che ne spenderanno fra 250 e 500, mentre il 16,7% dichiara di prevedere una spesa fra 500 e 700 euro. Rispetto al 2021, le percentuali di chi dichiara che spenderà all’incirca quanto l’anno scorso e di chi invece spenderà di più, sono più o meno equivalenti: 43,6% nel primo caso e 40,1% nel secondo. Solo il 16,4% afferma di prevedere una spesa inferiore.

Cresce la percentuale di chi chiederà un prestito

I pochi risparmi sono la motivazione della scelta di richiedere un prestito per più della metà (63,4%) di coloro che ricorreranno a questa soluzione nel 2022, mentre il 17,6% sostiene di voler fare una vacanza più lunga, e l’8,9% di aver scelto mete più costose. Per il 5,3% la scelta è dettata da un ampliamento del nucleo familiare e per il 4,9% da una diminuzione del salario. La possibilità di dilazionare il pagamento, che permette di non rinunciare a un momento di spensieratezza distribuendo l’impatto economico su diversi mesi, è il vantaggio più apprezzato dagli intervistati (47,5%), seguito dall’opportunità di soddisfare le esigenze della famiglia (37,5%).

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