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Categoria: Innovazione (Pagina 3 di 3)

La felicità al tempo del Coronavirus

Nonostante la pandemia il 63% dei cittadini di tutto il mondo dichiara di essere felice, e il Paese più felice del Pianeta è la Cina. Le principali fonti di felicità risiedono nella salute e il benessere fisico, nel rapporto con il partner o i figli, e nella qualità della vita. Il Global Happiness 2020 di Ipsos ha analizzato il livello di felicità dei cittadini in 27 Paesi del mondo, scoprendo come a livello globale il livello di felicità sia sceso di un solo punto percentuale rispetto allo scorso anno (64%). Anzi, in sei Paesi, tra cui Cina, Russia, Malesia e Argentina, è aumentato, con più di 3 adulti su 4 che si dichiarano felici, mentre in 12 Paesi, tra cui Perù, Cile, Messico e India, è diminuito, con meno di 1 adulto su 2 che si dichiara felice. 

Gli italiani non sono troppo felici

In testa alla classifica della felicità si piazza la Cina (93%, in aumento di 11 punti rispetto allo scorso anno), seguita dai Paesi Bassi (87%) e dall’Arabia Saudita (80%). Canada e Australia, in testa lo scorso anno, registrano un calo notevole: il Canada (78%), scende al quarto posto e l’Australia (77%), scende al sesto posto. L’indagine mostra poi un calo dei livelli di felicità in Perù, Cile e Messico. E l’Italia? L’Italia non rientra tra i Paesi più felici al mondo, posizionandosi al 16° posto. Rispetto allo scorso anno, però, il livello di felicità dei nostri concittadini è aumentato, passando dal 57% al 62%. 

In 10 anni diminuisce la percentuale di chi si dichiara felice

In generale, nel corso dell’ultimo decennio, l’incidenza della felicità è diminuita drasticamente. Tra il 2011 e il 2020, la percentuale di coloro che si dichiarano felici è diminuita di 14 punti a livello globale e l’unico Paese che mostra un aumento significativo dal 2011 è la Cina (+15 punti). Lo studio ha analizzato 29 potenziali fonti di felicità e, a livello globale, le prime 5 fonti citate sono salute/benessere fisico (55%), rapporto con il partner (49%), i figli (49%), sentire che la propria vita abbia senso e significato (48%), e qualità di vita (45%). Rispetto all’indagine condotta lo scorso anno, le fonti di felicità che hanno acquisito maggiore importanza riguardano le relazioni, la salute e la sicurezza, mentre tempo libero e denaro hanno ceduto terreno come fattori di felicità.

Cambiano le fonti di felicità

Per gli italiani le principali fonti di felicità risiedono nella sensazione di controllo della propria vita, salute e benessere fisico, sicurezza e protezione personale, sensazione che la propria vita abbia un senso, e a pari merito, hobby e condizioni di vita. In ogni caso, anno dopo anno, alcuni fattori registrano un aumento significativo nell’essere considerati fonte principale di felicità (essere perdonato, perdonare qualcuno, sicurezza e protezione personale, salute/benessere fisico, trovare un partner), mentre tre fattori mostrano un calo (situazione finanziaria personale, quantità di tempo libero a disposizione, nuova leadership politica nel Paese di residenza). 

Nel 2020 più viaggi d’affari, e più sostenibili

Come saranno i business travel nel 2020? Continueranno a crescere. Le trasferte di lavoro aumenteranno, soprattutto perché aumenterà il business aziendale. Ma allo stesso tempo, le aziende saranno sempre più attente ai temi ambientali. Tanto che molte di esse hanno già sostituito i voli aerei con mezzi di trasporto che implicano meno emissioni. Sono alcuni dei risultati di una ricerca condotta da AirPlus International, il fornitore globale di soluzioni di pagamento per viaggi d’affari per aziende, fra oltre 400 direttori generali e top manager appartenenti a cinque Paesi, Italia, Germania, Francia, Stati Uniti e Cina.

Per i manager italiani aumento di vendite e business le motivazioni della crescita

Più in dettaglio, le trasferte di lavoro aumenteranno per il 61% degli intervistati, mentre per il 36% rimarranno invariate rispetto al 2019, e solo il 3% ritiene che nel 2020 gli spostamenti diminuiranno. Ma perché si viaggerà di più? La motivazione più importante è la crescita generale e l’incremento del business (94%), ma sono importanti anche l’incontro personale con i clienti e l’espansione sui mercati internazionali, scelti entrambi dall’83% del campione come fattori determinanti. Per quanto riguarda l’Italia, nessuno degli intervistati ritiene che il business travel diminuirà. La maggioranza (55%) pensa infatti che i viaggi aumenteranno, e il 45% prevede che questi rimarranno invariati.  Per la quasi totalità poi (98%) l’aumento delle vendite e del business sono le motivazioni più rilevanti per l’aumento degli spostamenti.

Ma attenzione alla sostenibilità

Allo stesso tempo, il dibattito sul clima tocca in modo sempre più tangibile il mondo del business travel. Dalla ricerca infatti emerge come le aziende siano sempre più attente alle tematiche ambientali. Un terzo delle imprese intervistate ha già ridotto il numero di viaggi scegliendo una policy più sostenibile, e un altro 38% ha in programma di farlo. Quattro su dieci aziende hanno sostituito i voli aerei con viaggi in treno o altre modalità di trasporto meno inquinanti, e un altro 41% sta pianificando di fare lo stesso. Altre misure, come il calcolo delle emissioni di anidride carbonica e la loro compensazione, sono già una realtà per oltre un terzo del campione intervistato, e lo diventeranno presto per un ulteriore 40%. L’Italia supera la media globale per i dati relativi a quanti già compensano le emissioni prodotte (41%) e all’opzione di scegliere in futuro di utilizzare mezzi di trasporto alternativi (48%).

I trasferimenti aerei rimangono fondamentali sulle tratte a lungo raggio

I trasferimenti aerei, in particolare sulle tratte a lungo raggio, rimangono però fondamentali per l’81% degli intervistati, così come è indispensabile incontrare i clienti o i colleghi, rispettivamente per l’80 e il 79% del campione.

“Soprattutto quando si tratta di lunghe distanze, il trasporto aereo rimane essenziale – commenta Yaël Klein, Executive Director of Marketing di AirPlus -. Il contatto personale con clienti, partner o colleghi non può essere sostituito interamente da videoconferenze o soluzioni simili”.

Più boschi in Italia, e la legna da ardere è più ecocompatibile

Dal 2005 al 2015 i boschi in Italia sono aumentati del 5%, coprendo una superficie che si estende per 10,9 milioni di ettari, il 36,4% dell’intera superficie nazionale. Questo, soprattutto per l’abbandono delle campagne, ma anche perché nostro paese si abbattono pochi alberi, dal 18% al 37% rispetto alla ricrescita del bosco. Nel settore del riscaldamento, la legna copre il 21% dei consumi, e le nuove stufe a pellet o a legna emettono fino all’80% in meno di polveri sottili rispetto agli apparecchi più vecchi. Si tratta dei dati forniti da L’Italia che rinnova, la campagna promossa dall’associazione delle aziende del settore, l’Aiel, e da ong ambientaliste come Legambiente e Kyoto Club per divulgare l’utilizzo di fonti energetiche provenienti dal legno.

Si taglia meno di quanto ricresce

La gestione dei boschi in Italia è regolata per essere sostenibile. In pratica, quello che si taglia è sempre meno di quello che ricresce. Il legno, quindi, costituisce un’ottima fonte per il riscaldamento. Tanto che le biomasse legnose (legna da ardere, pellet, cioè segatura compressa, cippato, cioè scagliette di legno) costituiscono la prima fonte di energia rinnovabile in Italia, pari al 34%, seguita dall’idroelettrico (18%), le pompe di calore (12%), il fotovoltaico (9,5%) e l’eolico (6,7%). Nel settore del riscaldamento, quindi, la legna copre il 21% dei consumi, contro il 51% del metano, il 20% dell’energia elettrica, il 4% del gasolio e il 4% del gpl.

Emissioni di CO2 pari a un decimo di quelle dal metano

Secondo Agriforenergy, riporta Ansa, le emissioni di CO2 da questa fonte sono un decimo di quelle dal metano. Ma la critica principale che fanno gli ambientalisti alle stufe a legna è che producono molte polveri sottili, le Pm10 e PM2.5, estremamente dannose per la salute. “Questo è vero per stufe e camini vecchi, che purtroppo in Italia sono 4 milioni – spiega il coordinatore di Aiel, Marino Berton -. Gli apparecchi a legna e pellet di nuova generazione emettono fino all’80% in meno di polveri sottili rispetto ai vecchi impianti. E l’Italia è all’avanguardia nel mondo: il 70% delle stufe a pellet in Europa sono prodotte da aziende italiane. I nostri prodotti hanno conquistato i mercati tedesco e nordeuropeo”.
Il legno è una fonte di energia rinnovabile, perché la CO2 che produce è compensata da quella che era stata assorbita dall’albero.

Le biomasse legnose costano la metà del metano e un terzo del gasolio

In Italia ci sono oltre 10 milioni di stufe e caldaie a legna, 3 milioni delle quali a pellet. I costi? Le biomasse legnose costano 45 euro a megawattora, la metà del metano (85 euro) e un terzo del gasolio (143 euro). “Il pellet che si compra in Italia – spiega Berton – è coperto dalla certificazione internazionale EnPlus, che garantisce che sia fatto esclusivamente di segatura di legno vergine, senza vernici e altre sostanze. E stiamo approntando una certificazione simile anche per la legna da ardere, inserendo anche la tracciabilità della provenienza, per valorizzare le produzioni dei territori”.

Clima e consumi. Gli italiani chiedono alle aziende più impegno

Quali sono le aspettative dei cittadini nei confronti delle aziende e delle società in termini di lotta ai cambiamenti climatici? E come incentivarle a realizzare prodotti con meno impatto sull’ambiente? Una vasta maggioranza di italiani (64%) non si sente sostenuta dalle imprese per quanto riguarda l’impegno a favore del clima. Si tratta di una percentuale al di sopra della media dei cittadini europei che esprimono lo stesso scetticismo. Sono infatti il 54% gli europei secondo i quali le imprese non contribuiscono all’impegno dei singoli nel contrastare i cambiamenti climatici. È quanto emerge dall’indagine sul clima della Banca europea per gli investimenti. Che, in collaborazione con YouGov, ha pubblicato il quinto pacchetto di risultati dell’indagine sul clima. Si tratta di un sondaggio che analizza come i cittadini percepiscono i cambiamenti climatici nell’Unione europea, negli Stati Uniti e in Cina.

Il 79% tiene conto dell’impatto potenziale di un prodotto sul clima

L’indagine rivela l’esistenza di un legame molto stretto tra comportamento dei consumatori italiani e lotta ai cambiamenti climatici: sono infatti il 79% (contro il 67% della media europea) gli italiani che al momento dell’acquisto tengono conto anche del potenziale impatto di un prodotto o servizio sul clima.

Riguardo alle possibili soluzioni per incentivare le imprese a ridurre le emissioni di gas a effetto serra, un’ampia fetta di italiani (48%) dichiara di privilegiare le misure di regolamentazione a livello nazionale. In questo caso, la percentuale è leggermente inferiore alla media europea (52%). In particolare, il 27% degli italiani ritiene che le misure più efficaci siano rappresentate da regolamenti e sanzioni, mentre il 21% confida nel fatto che incentivi fiscali sotto forma di sgravi e sovvenzioni possano promuovere modelli aziendali più ecologici.

Approccio all’acquisto, un divario generazionale

Per quanto riguarda le fasce di età, riporta AdnKronos, emerge un divario generazionale per quanto riguarda l’approccio all’acquisto. Se sono infatti il 32% gli italiani over 55 che definiscono molto importante l’impatto climatico di un prodotto o servizio, nella fascia d’età compresa fra 35-55 anni questa percentuale si attesta al 28%, uno scarto di 4 punti percentuali rispetto ai più “anziani”. Nella generazione più giovane, ovvero quella di età compresa tra i 18 e i 34 anni, la percentuale scende ancora, e si ferma al 21%,

“L’azione per il clima rappresenta un buon affare per le imprese”

“Per la lotta ai cambiamenti climatici è necessaria la partecipazione di tutti e in questo senso le imprese svolgono un ruolo fondamentale – sottolinea Emma Navarro, vicepresidente della Bei, responsabile per i finanziamenti a favore del clima e dell’ambiente -. I risultati dell’indagine mostrano che i cittadini si aspettano un maggior impegno nella lotta ai cambiamenti climatici da parte delle imprese. A questo proposito va chiarito che l’azione per il clima rappresenta un buon affare, e può generare benefici tangibili in termini di crescita economica e creazione di posti di lavoro”.

A ogni professione il suo delivery. Gli italiani e il cibo a domicilio al lavoro

Cresce l’abitudine di farsi recapitare il pranzo sul posto di lavoro. Soprattutto da chi si occupa di marketing e comunicazione, di finanza e amministrazione, e digital, i tre settori in cui si ordina più food delivery. E se a vincere è la pausa pranzo (72%) anche la cena recapitata in ufficio sta avendo un certo successo, soprattutto negli ambiti design e automotive. Da Nord a Sud, in città e anche nei piccoli centri, si ordina anche 2-3 volte al mese (30%),  lo ha scoperto l’Osservatorio Just Eat, che ha analizzato le abitudini di oltre 7.000 lavoratori appartenenti a 17 professioni, rivelando gusti, cibi e occasioni di consumo del digital food delivery.

Cosa vogliono gli italiani che scelgono il food delivery in ufficio

A riconoscere i plus del food delivery, come la praticità e la possibilità di sperimentare cucine lontane e della tradizione locale, sono in particolare i professionisti del marketing e comunicazione, i tempi di consegna affidabili sono fondamentali invece per le risorse umane, mentre la varietà è apprezzatissima nell’ambito dell’editoria. La possibilità di godere di sconti speciali, poi, è un must per il settore bancario, ma anche per chi lavora nella moda. Ordinare cibo a domicilio in ufficio però è anche un momento per condividere i pasti con i colleghi, tanto che il 30% ordina per il team, il 16% per gruppi più numerosi e il 28% con un altro collega.

I piatti più richiesti

Nel 2018 è il sushi a trionfare (39%), seguito dai panini con ingredienti a scelta (37%), e le piadine (36%). Tra i piatti preferiti nigiri saké e nigiri al salmone, uramaki ed edamame. Ma tra le cucine più trendy, e che dimostrano la maggior crescita, anche l’hawaiano poké, cresciuto in modo esponenziale. Quanto alla classifica dei generi, se il primo posto spetta alla cucina giapponese, il secondo se lo aggiudica la nostrana gastronomia, e al terzo la cucina healthy, sempre più ricercata a pranzo. Tra i “desk” degli Italiani si consumano però anche gelato, pinsa e proposte di rosticceria, e si confermano intramontabili i pack a domicilio di cucina giapponese, messicana e a base di pollo.

A ogni mestiere il suo pasto

Chi lavora nel marketing e comunicazione ama l’healthy, che vale anche per il settore immobiliare. Chi è attivo nel digitale preferisce l’hamburger, così come i liberi professionisti, mentre nelle risorse umane si ordina sushi, e nell’intrattenimento, cinese e ramen.  Nel settore sanitario/medicale predomina il sushi, a pari merito con chi è impiegato nel settore bancario e in quello finanziario/amministrativo, mentre chi è nelle vendite e nel commerciale vuole i tramezzini. Nell’estetica e nella bellezza spopolano le insalate, nella moda gli hamburger, nella grafica il pokè. Per il comparto food & beverage spazio a cinese e ramen, etnico per l’editoria, mentre nell’automotive i panini, insieme a design e arredamento.

I trend 2019 per il lavoro, fra automazione e ruolo umano

L’inarrestabile progresso tecnologico garantirà alle aziende sempre più strumenti da impiegare nelle strategie di sviluppo. Ma per massimizzare i vantaggi delle nuove tecnologie sarà fondamentale che manager e responsabili Hr comprendano e anticipino l’impatto di queste su tutte le dinamiche aziendali: dal reparto Hr stesso al marketing e il finance. Nessun settore sarà immune al progresso tecnologico e alla digitalizzazione.

Robot, automazione e intelligenza artificiale, quindi. Senza dimenticare però il ruolo dell’uomo, che resterà comunque centrale.

“L’automazione in ambito lavorativo – spiega Jacky Carter, Group Digital Engagement Director di Hays, società di recruitment specializzato – richiederà certamente un adeguamento nelle competenze professionali. Per questo, le imprese che vogliono fidelizzare i talenti migliori dovranno essere in grado di mettere a loro disposizione tempo, conoscenze e opportunità per intraprendere un percorso di apprendimento e di crescita”.

L’apprendimento continuo come skill fondamentale

Secondo l’analisi di Hays, fra i principali trend per il lavoro nel 2019 l’apprendimento continuo sarà la skill fondamentale per rimanere al passo con i tempi. Anche nell’utilizzo dei nuovi sistemi per comunicare. Sebbene l’email sia ancora considerata il principale strumento di comunicazione nel corso degli ultimi anni le interfacce vocali o di messaggistica istantanea sono entrate nell’uso quotidiano, anche al lavoro. Inoltre, è inevitabile che molti compiti, soprattutto quelli ripetitivi, nel prossimo futuro possano essere sostituiti dall’automazione e dai robot. Tuttavia, non bisogna temere il cambiamento: il ruolo dell’uomo resterà fondamentale per portare a termine le mansioni che richiedono necessariamente la sensibilità di un professionista.

Employee Experience come Brand Reputation

L’Employee Experience, ovvero l’intero percorso che una risorsa compie in azienda dal momento in cui si candida fino al termine del rapporto di lavoro, sta diventando un elemento chiave nella reputazione delle aziende. E la metodologia e la frequenza con cui i feedback dei professionisti vengono raccolti fa sempre più spesso affidamento all’intelligenza artificiale, che assicura un’elaborazione accurata e precisa dei dati, consentendo alle aziende di capire se l’Employee Experience vissuta dalle proprie risorse può diventare un plus per la reputazione aziendale.

Il cambiamento culturale è il primo passo verso l’innovazione

Ma è il cambiamento culturale il primo passo verso l’innovazione: il progresso tecnologico ha senso solo se rappresenta realmente un beneficio per il target a cui si rivolge. Affinché questo avvenga, le organizzazioni devono intraprendere come prima cosa un cambiamento culturale, che dovrebbe partire dai vertici aziendali per incoraggiare un ambiente votato alla collaborazione, all’apertura e alla flessibilità.

I responsabili delle risorse umane hanno un ruolo chiave nel guidare e facilitare la creazione di un clima aziendale che favorisca il cambiamento, e accolga positivamente i nuovi input tecnologici.

 

Carburanti, arrivano le nuove sigle

Carburanti, si cambia. Addio alle vecchie abitudini: quando faremo rifornimento dal benzinaio dovremo fare amicizia con nuovi segnali, che saranno gli stessi in ben 28 paesi del Vecchio Continente. Per identificare gasolio, verde, gpl e metano in tutta Europa verranno infatti utilizzate nuove etichette e sigle contrassegnate da una forma geometrica contenente lettere e numeri conformi allo standard definito nella norma EN 16942. La direttiva è già valida e applicata, anche in Italia.

Cosa prevede la direttiva Europea in merito

L’Unione Europea ha incaricato il Comitato Europeo di Normazione (CEN) di sviluppare etichettature da ora in vigore in tutti i 28 Stati membri dell’Unione, nei Paesi dello Spazio Economico Europeo (Islanda, Lichtenstein, Norvegia), e ancora in Serbia, Macedonia, Svizzera e Turchia. Anche sui nuovi veicoli prodotti in UE e destinati al mercato britannico continueranno ad essere presenti le etichette, indipendentemente dalle decisioni di questo Paese sull’applicazione delle regole UE dopo la Brexit.

Come sono le nuove etichette

La benzina viene indicata con una sagoma circolare, per il gasolio l’etichetta è quadrata mentre per i carburanti gassosi è a forma di rombo. All’interno di tali forme compariranno lettere e numeri: la ‘B’ per il gasolio (più un eventuale numero che indica la percentuale di biocarburante) oppure ‘XTL’ per il gasolio sintetico; ‘H2’ per l’idrogeno; ‘CNG’ per il gas naturale compresso; ‘LPG’ per il Gpl; ‘LNG’ per il gas naturale liquefatto. Per quanto riguarda la benzina, è utilizzata la sigla ‘E’ affiancata da un numero che indicherà la percentuale di etanolo contenuta. Una serie di etichette simili è prevista anche per i veicoli elettrici o ibridi plug-in e relative stazioni di ricarica.

Dove trovare le sigle

La direttiva Ue richiede che le etichette vengano applicate su tutte le stazioni di rifornimento dell’UE (sia sul distributore di carburante sia sulla pistola della pompa per l’erogazione). Non solo: le sigle dovranno essere ben visibili anche sui veicoli immessi sul mercato per la prima volta o immatricolati da oggi. Le tipologie di veicoli interessati dalla norma sono praticamente tutti: ciclomotori, motocicli, tricicli e quadricicli; autovetture; veicoli commerciali leggeri e pesanti; autobus. Sui veicoli le etichette si troveranno in prossimità del tappo o dello sportello del serbatoio e sul manuale d’uso e manutenzione fornito insieme alla vettura. Sui modelli più recenti si possono trovare nel manuale elettronico incluso nel sistema di infotainment del veicolo. Insomma, ci toccherà studiare per imparare a familiarizzare con i nuovi codici esposti dal benzinaio

Smartwatch, è boom di vendite

Gli smartwatch, i cosiddetti “orologi intelligenti”, conquistano il cuore e il polso dei consumatori di tutto il mondo. Anche se nell’ultimo periodo ha tenuto banco il lancio dei nuovi iPhone, il mercato degli smartwatch sta registrando performance di tutto rispetto. Lo rivelano i dati raccolti dai ricercatori di i Strategy Analytics, che hanno analizzato i trend delle vendite. Per avere un’idea del peso di questa tipologia di prodotti hi-tech, orami compagni di una grandissima fetta di popolazione, l’ultima rilevazione annuncia che nel terzo trimestre le consegne globali hanno messo a segno un +67% su base annua, raggiungendo i 10 milioni di unità a fronte dei 6 milioni di dispositivi registrati nel pari periodo del 2017.

Apple sempre salda al primo posto del podio

In questo contesto, Apple si conferma leader del mercato, nonostante qualche contraccolpo a causa di competitor sempre più agguerriti. Tra luglio e settembre, riporta una nota dell’Ansa, la compagnia di Cupertino ha consegnato 4,5 milioni di Apple Watch, il 25% in più rispetto ai 3,6 milioni dell’anno precedente. La quota di mercato del colosso di Cupertino si è però ridotta dal 60 al 45%. “Apple sta affrontando una concorrenza crescente da parte di una Samsung e una Fitbit rivitalizzate”, spiegano gli analisti, secondo cui il nuovo Apple Watch Series 4 è stato “un’aggiunta assolutamente necessaria all’arsenale di Apple”.

Sempre più competitor all’attacco del mercato globale

Ovviamente, le altre casa produttrici non stanno certo a guardare e corrono l’attacco con smartwatch sempre più performanti. D’altronde, se le vendite sono passate da 6 a 10 milioni di esemplari una ragione c’è, ed è proprio la concorrenza ogni giorno più ampia. Fitbit, grazie allo smartwatch Versa, si piazza al secondo posto del mercato con 1,5 milioni di unità consegnate (era a zero un anno fa). Dopo aver velocemente conquistato il target nordamericano, la compagnia di San Francisco punta nel 2019 a fare breccia anche in Europa, Asia e America Latina. Samsung si piazza al terzo gradino del podio con 1,1 milioni di smartwatch rispetto alle 600mila unità del terzo trimestre 2017. Per la coreana “la nuova gamma Galaxy Watch sta vendendo abbastanza bene, grazie ai miglioramenti introdotti e al marketing aggressivo”, osservano gli esperti. Fuori dal podio c’è Garmin con 800mila unità vendute contro le 600mila di un anno fa. Adesso, anche Huawei è scesa in campo, presentando il proprio smartwach. La guerra a colpi di orologi intelligenti è decisamente aperta.

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